Gli attori individuali della competizione.
L'indubbia personalizzazione
delle competizioni elettorali introdotta dalla recente legislazione potrebbe
generare l'errata impressione che i singoli candidati si siano completamente
liberati dai guinzagli dei partiti o dei gruppi politici organizzati o che
possano correre in autonomia rispetto ai medesimi.
Le cose non stanno proprio
così, anche se la legge per la formazione del Senato, in verità, considera
l'ipotesi del candidato slegato, che per ora, però, sembra rappresentare
un fenomeno del tutto marginale.
E' in ogni caso vero che le
nuove regole hanno provocato l'esaltazione della figura del candidato, come non
poteva accadere nel vigore del sistema proporzionale a scrutinio di lista.
Allora ciascuna forza politica si offriva agli elettori della Camera dei
deputati con una pluralità di volti (con ampio spazio per la mediocrità) ai
quali, non di rado, corrispondeva una molteplicità di programmi e di
prospettive politiche; cosicché i partiti potevano con una certa disinvoltura
cacciare consensi a 360 gradi, avvalendosi dei rispettivi candidati come
terminali sapientemente diffusi presso le varie aree di interessi sensibili
(politici, sociali, corporativi, clientelari).
Sarebbe quasi ovvio ritenere
che ora i collegi uninominali costringano i partiti a rinunciare al
polimorfismo e alla vocazione all'ambiguità per inaugurare una nuova stagione
di univocità, coerenza e trasparenza attraverso la presentazione di buoni
candidati capaci di esprimere con chiarezza e determinazione le posizioni e i
programmi delle formazioni politiche di appartenenza. Ma -come si è già
accennato- il sistema maggioritario con la sua dinamica verso la
polarizzazione o, comunque, con la spinta alla costituzione di schieramenti il
più possibile ampi per non ritrovarsi irrimediabilmente sconfitti, rende il
gioco più complesso. E più complesso (o meno lineare) si fa il rapporto tra
candidati e partiti.
Infatti, il compromesso su
cui si fonda lo schieramento (o polo) richiede alle forze contraenti
innanzitutto l'individuazione nel maggior numero possibile di collegi
uninominali di candidati comuni, appunto per evitare fatali dispersioni
di voti e per avere maggiori probabilità di sconfiggere i candidati dei campi
avversi.
Se lo schieramento si
costituisce sulle basi di una pura (ed elementare) tattica aritmetica,
facilmente si perverrà a un accordo passivo per una calibrata
distribuzione dei collegi tra le diverse formazioni secondo la logica delle
"riserve di caccia": dove si presenta il partito X con il proprio
candidato X-1 non concorrono i candidati delle altre formazioni che
hanno sottoscritto l'accordo. L'aspettativa (o la semplice speranza) è che i
potenziali elettori (razionali) delle forze rinunciatarie onorino il
"contratto di scambio" e indirizzino quasi spontaneamente il loro
voto su tale candidato.
Se lo schieramento riesce a
costituirsi su basi più solide (strategiche), l'accordo avrà una valenza
positiva: punterà, cioè, alla ricerca di candidati effettivamente comuni,
"di cartello", prescelti non all'interno delle singole forze
politiche, ma preferibilmente all'esterno: tra esponenti della società
civile, tra personalità di un certo richiamo o notorietà che si riconoscano
nello schieramento, senza peraltro rivelare la loro adesione o aperta
propensione per l'uno piuttosto che per l'altro partito. Proprio considerando
questa ipotesi di più largo respiro si faceva sopra riferimento alla
disponibilità all'autoriduzione delle diverse forze che decidono di
partecipare allo stesso tavolo, quale opportunità che aumenta le chances
di successo.
Una simile soluzione,
peraltro, può dare luogo a esiti non felici quando lo schieramento non matura,
più virtuosamente, in coalizione con prospettive di governo. I candidati comuni,
di compromesso, possono allora essere individuati soprattutto tra personalità
di profilo tendenzialmente neutro, con il rischio di indebolire nella
competizione la risorsa programmatica, che pur non dovrebbe essere troppo
trascurata in un confronto che si svolge secondo regole maggioritarie e che ha
come posta finale il conseguimento della maggioranza parlamentare, quantomeno
in grado di non consentire ai campi avversi di realizzare le loro aspettative
di governo.
Il profilo dei candidati nei collegi uninominali e le
variegate formule di presentazione.
Infatti, tra candidati nei
collegi uninominali (dove il voto è espresso con la prima scheda) e formazioni
politiche che concorrono con proprie liste rigide nelle circoscrizioni (dove il
voto è espresso con la seconda scheda), che comprendono i collegi uninominali
medesimi, si instaura un legame necessario: una serie di vincoli non
solo procedurali, ma anche sostanziali diretti a mettere ben in chiaro da
che parte sta ciascun candidato, con quali forze corre e, in prospettiva,
per il successo di quale schieramento.
Per quanto concerne i
vincoli procedurali, la legge stabilisce che le candidature in ciascun
collegio uninominale nella medesima circoscrizione siano depositate da un
rappresentante del partito o del gruppo politico organizzato cui esse sono
associate. Sul piano pratico e dell'immagine ciò significa che il nome
del candidato deve essere abbinato almeno a un simbolo (contrassegno)
tra quelli depositati -nell'imminenza dell'apertura della campagna elettorale-
presso il Ministero dell'Interno dai responsabili dei partiti, gruppi
o raggruppamenti che intendono partecipare alla competizione. Proprio
la varietà o meno dei simboli (in ogni caso non superiori a cinque) che
accompagnano e contraddistinguono una candidatura identifica la sua
origine ed, eventualmente, il tipo e l'intensità di rapporto tra diverse
formazioni politiche.
Se una candidatura è
"coperta" dall'ombrello monocolore di un solo simbolo, sarà
chiaro che essa appartiene a un partito (candidatura militante)
e per valutare se tale partito ha stipulato accordi (tattici) di schieramento
con altri, basterà accertare quali partiti hanno rinunciato a partecipare alla
gara in quel collegio uninominale. Se una candidatura è coperta da un ombrello
variopinto (più simboli di partito accanto al nome), sarà altrettanto
chiaro che essa è manifestazione di una convergenza esplicita tra
le forze cui appartengono i simboli medesimi. Tale accordo (cartello
elettorale), peraltro, può essere il frutto di opzioni differenziate. Può
concretarsi semplicemente nel sostegno comune a una candidatura propria di una
determinata formazione (sostegno che, facilmente, questa restituirà in altri
collegi). Oppure -come si segnalava sopra- l'accordo si può tradurre
nell'adesione comune a una candidatura indipendente o esterna, che cioè si
identifichi soprattutto con lo schieramento e con le sue prospettive più
generali (positive: di governo; o negative: per contrastare i
candidati di altre alleanze o poli). L'elemento formale che consente
all'elettore attento (e razionale) di percepire la natura di candidature
siffatte è il particolare simbolo -tra altri tradizionali- che le
contraddistingue. E cioè un simbolo "contenitore" (impostato su
emblemi o motti che richiamano le opinioni diffuse nella società civile) che le
formazioni alleate hanno appositamente prodotto e depositato -a cura di
rappresentanti non di partito, ma di cartello: il supergruppo- per
situazioni di questo genere. Un simbolo che gli elettori non ritroveranno
sulla seconda scheda dove si votano le liste di partito identificate dai
rispettivi contrassegni ufficiali, le quali concorrono per l'assegnazione dei
seggi da ripartire in ragione proporzionale.
I candidati nei collegi
uninominali sono obbligatoriamente abbinati a uno o più (fino a un
massimo di 5) contrassegni non soltanto per rivelare agli elettori la propria
fisionomia politica (di partito o di schieramento), ma anche in funzione del
singolare intreccio che la legge per la formazione della Camera dei deputati ha
stabilito tra competizione nei 475 collegi uninominali e competizione nelle 26
circoscrizioni per lo più pluriprovinciali o regionali entro cui essi sono
distribuiti.
Infatti, il cosiddetto
"collegamento" che ciascun candidato con atto formale deve dichiarare
di voler effettuare con una o più liste (e in accordo, evidentemente, con i
rappresentanti delle stesse) è previsto anche ai fini dello scrutinio in
ambito nazionale e circoscrizionale: per ragioni di computo e riduzione
dei voti ottenuti dalle liste collegate. I dettagli si illustreranno più
avanti; qui è sufficiente anticipare in modo approssimativo che l'elezione di
un candidato nel collegio uninominale comporta una penalizzazione (appunto in
termini di riduzione di voti) per la lista o le liste con le quali il candidato
vincitore si è collegato nella circoscrizione.
E, per meglio sottolineare
come i singoli candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione
siano necessariamente tenuti a una manifestazione di coerenza politica complessiva
e collettiva, occorre precisare che i collegamenti con più liste dichiarati
dai vari candidati, e da queste accettati, devono essere i medesimi in tutti i
collegi in cui si suddivide la circoscrizione. Si comprende allora perché debba
essere lo stesso rappresentante di partito o di gruppo a presentare insieme
tutte le candidature per i collegi uninominali della circoscrizione.
L'interferenza dei risultati
tra gara in ambito di collegio uninominale ad esito maggioritario puro e gara
in ambito circoscrizionale (e al tempo stesso nazionale), dove per lo scrutino
si applica un metodo di ripartizione proporzionale, mette in luce un'altra
questione che inevitabilmente pesa negli accordi tattici tra le forze
del medesimo campo: come distribuire i costi elettorali del successo dei
candidati comuni nei collegi uninominali, tanto più se tali candidati sono
effettivamente indipendenti (candidati di schieramento). Secondo una logica
meramente matematica, un collegamento con il maggior numero di liste possibile
dello schieramento consentirà di distribuire i costi pro quota (in
proporzione, cioè, ai suffragi ottenuti nella circoscrizione da ciascuna lista
collegata). Ma, d'altra parte, in un determinato collegio l'eccessivo
affollamento di simboli accanto al nome di un candidato indipendente (di
schieramento) potrebbe rappresentare una controindicazione ai fini della sua
capacità di presa sull'elettorato. Una soluzione da considerare sarà
allora quella della concertazione complessiva dei collegamenti,
valutando con attenzione, realismo e prudenza le singole situazioni di
ciascuna circoscrizione. Il "polo" che riuscisse a pervenire ad
accordi indovinati di questa natura (ancora una volta si tratta per ciascuna
formazione di manifestare una sapiente disponibilità all'autoriduzione)
rivelerebbe la sua forza, la sua capacità di aggregazione; dimostrerebbe in
sostanza di avere una strategia. E, probabilmente, porrebbe una buona ipoteca
sul successo finale.
Per il Senato la relativa
legge elettorale è certamente meno complessa (si vota con una sola scheda); ma
essa a una prima lettura come già si è accennato, sembra offrire alle forze
politiche minori opportunità di impostare quelle sofisticate strategie e
combinazioni di utili aggregazioni quasi inevitabili per la Camera. Anzi, a
prima vista, esse sembrerebbero addirittura disincentivate.
L'aspetto forse più
interessante della legge è l'ipotesi della partecipazione alla competizione
(nei 232 collegi uninominali, distribuiti nelle 20 regioni in rapporto alla
consistenza demografica di ciascuna) di candidati non legati ai partiti
neppure sotto il profilo organizzativo (cioè, senza necessità per i
candidati di essere formalmente presentati da rappresentanti ufficiali dei
partiti medesimi).
Le personalità indipendenti
possono, in effetti, correre per proprio conto nei collegi in cui ritengono di
godere di una sufficiente popolarità. Occorre però avvertire che la legge in un
simile caso considera le candidature indipendenti quasi alla stessa stregua dei
soggetti politici collettivi; nel senso che impone alle personalità
indipendenti che intendano scendere nell'arena elettorale senza
"guinzaglio" l'onere di un'organizzazione che certamente non agevola
la loro partecipazione; a meno che queste candidature non siano espressione di
efficienti e territorialmente ben insediati movimenti politici locali. Anche
per i singoli candidati locali è previsto l'obbligo di depositare
a Roma, presso il Ministero dell'Interno, il contrassegno con cui dichiarano di
volere contraddistinguere la proprio candidatura. Insomma, non è consentito
proporsi agli elettori semplicemente con nome e cognome: occorre sempre un
simbolo che evoca l'esistenza di un'organizzazione, di un movimento anche se
solo d'opinione. Del resto, anche le candidature indipendenti locali
necessitano, per essere validamente presentate, del sostegno di un numero
minimo di elettori sottoscrittori, come si vedrà più avanti.
Da quanto fin qui esposto
emerge come l'ipotesi di gran lunga più frequente sia anche per il Senato la
presentazione dei candidati nei collegi uninominali, compresi in ciascuna
regione, ad opera dei partiti o dei gruppi politici organizzati con il
rispettivo contrassegno. E si deve subito precisare che tale presentazione, in
ciascuna regione, sarà normalmente effettuata sotto forma di cordata
tra vari candidati che aderiscono alla medesima formazione, cioè per
"gruppi"; i quali devono comprendere un numero di candidati non
inferiore a tre e non superiore al numero dei collegi uninominali della regione
medesima. Infatti assai difficilmente i partiti -se non costituiscono appositi
accordi di cartello- si avvarranno della facoltà della presentazione per
singoli candidati (cioè collegio per collegio), per le ragioni tattiche
che si andranno ad esporre.
Per comprendere il senso di
questa varietà di opzioni occorre considerare la doppia valenza della
competizione elettorale che sussiste anche per il Senato. La gara per l'aggiudicazione
dei seggi si svolge infatti in un duplice ambito, seppure non immediatamente
percepibile: nei collegi uninominali (è eletto il candidato che ottiene
il maggior numero dei voti) e nella circoscrizione regionale (i pochi
seggi in palio sono assegnati ai partiti-gruppi in rapporto proporzionale ai
voti conseguiti nella regione medesima). La differenza più vistosa rispetto
alla tecnica adottata per la Camera è che l'elettore ha a disposizione una sola
scheda e un solo voto per determinare il risultato sia in sede di collegio
uninominale, sia in sede regionale. Egli, se non riesce a eleggere nel
collegio il candidato prescelto, contribuisce comunque ad incrementare i
suffragi del gruppo -cui il candidato appartiene-, indispensabili per
l'aggiudicazione dei seggi da ripartire con metodo proporzionale. Cosicché può
accadere che -se il consenso al gruppo è sufficiente- il candidato pur perdente
nel collegio uninominale può essere recuperato nella dimensione
regionale ed essere pertanto eletto.
Naturalmente la doppia
valenza del voto non sussiste per l'elettore che esprima la sua opzione nei
confronti di un candidato non legato o presentato in quanto singolo
da un partito (candidatura individuale, nel gergo giuridico). In questo
caso un tale voto è ininfluente ai fini della gara di gruppo in ambito
regionale. Semplificando, si potrebbe dire, che l'elettore, attribuendo la
preferenza a un candidato perdente e che non può partecipare al riparto
proporzionale dei seggi, ha utilizzato il suo voto per metà.
Il congegno, succintamente
esposto e che verrà poi più approfonditamente descritto, pone ai partiti
problemi di tattica e strategia elettorale di non facile soluzione. Indubbiamente
il primo impulso sarà quello di giocare al ribasso, ma sul sicuro; e,
cioè, di puntare su candidature militanti (raggruppate) che, se non
vincono nei collegi uninominali, portano tuttavia al gruppo voti decisivi per
conseguire qualche seggio ripartito in ragione proporzionale. Rispetto ai
collegi uninominali per l'elezione della Camera, quelli relativi al Senato
sarebbero pertanto più affollati di candidati. Riemergerebbe così la vecchia
mentalità proporzionalistica pur nel contesto di un sistema che, alla resa dei
conti, determina un esito con un'intensità maggioritaria superiore a
quella che produce il sistema previsto per la Camera. E potrebbero non
riproporsi nella competizione per il Senato gli schieramenti o poli
quasi necessari nella competizione per l'altra Assemblea parlamentare; e la
presenza di candidature esterne comuni (di cartello) tratte dalla
società civile sarebbe più rara.
Comportamenti regressivi e
dissociati di tale genere non sono ovviamente inevitabili. Un'analisi ragionata
delle condizioni effettive, formali e sostanziali, che caratterizzano la stessa
competizione elettorale per il Senato potrebbe in verità convincere le
formazioni virtualmente appartenenti a un medesimo schieramento a
impegnarsi in una strategia più positiva, di alleanze, contemplate, peraltro,
dalla stesse legge che consente la presentazione di gruppi e (dunque di
candidati) contraddistinti da una pluralità di contrassegni.
Questi gli elementi e
fattori che potrebbero indurre ad opzioni più costruttive di cartello:
a) L'elezione del Senato a base
regionale, in virtù della quale la ripartizione di tutti i seggi assegnati
a ciascuna regione in rapporto alla sua consistenza demografica si esaurisce in
tale ambito. Ciò determina una evidente disomogeneità di situazioni e di opportunità.
Ad esempio, in Lombardia, la quota di seggi riservati alla distribuzione in
ragione proporzionale è relativamente elevata (12 su un totale di 47) e può
consentire anche ai partiti di medie dimensioni (quelli con una percentuale di
voti attorno al 6 per cento) di scommettere sul conseguimento di qualche seggio,
anche in virtù del meccanismo dello "scorporo" (che nella
ripartizione proporzionale riduce la cifra elettorale dei gruppi che hanno
ottenuto eletti nei collegi uninominali: per i particolari più avanti). Ma in
altre regioni (e sono la maggioranza) i seggi in palio con la proporzionale
sono assai di meno e non consigliano una eguale scommessa: così in Toscana sono
soltanto 5 su 19 (e si tratta di una situazione intermedia). Tali cioè
da rendere la scommessa non solo assai più rischiosa per le formazioni medie,
ma tali da pregiudicare il risultato complessivo delle forze che si riconoscano
nello stesso virtuale schieramento. La frantumazione delle candidature nei
collegi uninominali favorisce evidentemente anche per il Senato i candidati di
un campo avverso, tanto più se questo è riuscito a raggiungere fruttuose
aggregazioni, magari così forti da giocare la carta della presentazione in
determinati collegi di "sicure" candidature individuali (non
inserite in gruppi), la cui riuscita compensa ampiamente la mancata
partecipazione al riparto proporzionale dei seggi.
b) La rincorsa al buon
risultato nella ripartizione proporzionale (un vero e proprio specchietto per
le allodole!) induce a dimenticare che i seggi in gioco, assegnati attraverso
tale metodo, sono complessivamente solo 83 su 315. Gli altri 232 sono in palio
nei collegi uninominali.
c) Una minore capacità di
aggregazione per il Senato rispetto a quella eventualmente dimostrata per la
Camera potrebbe costare molto cara sul piano delle prospettive di governo
postelettorale; nel senso che il mancato conseguimento della maggioranza nella
prima assemblea potrebbe rendere sterile l'eventuale successo ottenuto nella
seconda. Si creerebbe in tale evenienza quello stato di paralisi, di
instabilità o di innaturali compromessi per evitare il quale si è ricorsi al
"rimedio" proprio delle riforme elettorali in senso maggioritario.
d) La diversificazione di
tattica (o di strategia) per il Senato, nel senso regressivo innanzi
ipotizzato, facilmente si ripercuoterebbe sulla qualità e sulla novità
delle candidature e, in ultima analisi, sulla capacità di presa nei confronti
degli elettori (razionali e istintivi). Si impoverirebbe dunque
quel benefico incontro tra società civile e nuova politica, che dovrebbe
costituire il fondamento della “seconda” Repubblica.
Queste ragioni (ma altre non
mancano) sembrerebbero abbastanza forti per convincere gli attori politici a
non rinunciare alla dimensione di schieramento nella competizione anche
per il Senato. Gli eventuali accordi sottoscritti in tale direzione per la
Camera potrebbero comunque provocare un positivo effetto di trascinamento.